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giovedì 6 agosto 2009

La banalità del male

Günther Anders e Hannah Arendt, 1929

Claude Eatherly fu il pilota di Enola Gay, il bombardiere americano che sganciò Little boy. La bomba atomica, cui fu dato quel nome vezzoso, esplose a Hiroshima il 6 agosto del 1945. Eatherly ignorava la potenza dell'ordigno che sganciò, se ne rese conto quando allontanandosi a bordo del bombardiere vide sparire Hiroshima in una nuvola gialla.
Diversi anni dopo il filosofo Günther Anders cominciò con lui una corrispondenza di cui riporto le prime due lettere.

Lettera di Günther Anders a Claude Eatherly

Al signor Claude R. Eatherly ex maggiore della A. F. Veterans Administration Hospital Waco, Texas

3 giugno 1959

Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà (o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokio o a Vienna) col cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione dell'esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare ‑ questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare “incolpevolmente colpevoli”, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri.
Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere ‑ oggi o domani ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi tutti. E per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore.
Probabilmente tutto questo non Le piace. Vuole stare tranquillo, your life is your business. Possiamo assicurarLe che l'indiscrezione piace così poco a noi come a Lei, e La preghiamo di scusarci. Ma in questo caso, per la ragione che ho appena detto, l'indiscrezione è ‑ purtroppo ‑ inevitabile, anzi doverosa. La Sua vita è diventata anche il nostro business. Poiché il caso (o comunque vogliamo chiamare il fatto innegabile) ha voluto fare di Lei, il privato cittadino Claude Eatherly, un simbolo del futuro, Lei non ha più diritto di protestare per la nostra indiscrezione. Che proprio Lei, e non un altro dei due o tre miliardi di Suoi contemporanei, sia stato condannato a questa funzione di simbolo, non è colpa Sua, ed è certamente spaventoso. Ma così è, ormai.
E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo modo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in quest'epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, così anche noi non abbiamo scelto quest'epoca infausta. In questo senso siamo quindi, come direste voi americani, “on the same boat", nella stessa barca, anzi siamo i figli di una stessa famiglia. E questa comunità, questa parentela, determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a cui è capitata la disgrazia di fare realmente ciò che ciascuno di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera, tremendamente invano, di averla potuta evitare allora.
Ma allora ciò non era possibile: il meccanismo dei comandi funzionò perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento. Dunque lo ha fatto. Ma poiché lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci è estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei è, in qualche modo, il nostro maestro.
Naturalmente Lei rifiuterà questo titolo. "Tutt'altro, dirà, ‑ poiché io non riesco a venire a capo del mio stato".
Si stupirà, ma è proprio questo "non" a far pencolare (per noi) la bilancia. Ad essere, anzi, perfino consolante. Capisco che questa affermazione deve suonare, sulle prime, assurda. Perciò qualche parola di spiegazione.
Non dico "consolante per Lei”. Non ho nessuna intenzione di volerLa consolare. Chi vuol consolare dice, infatti, sempre: "La cosa non è poi cosi grave"; cerca, insomma, di impicciolire l'accaduto (dolore o colpa) o di farlo sparire con le parole. È proprio quello che cercano di fare, per esempio, i Suoi medici. Non è difficile scoprire perché agiscano così. In fin dei conti sono impiegati di un ospedale militare, cui non si addice la condanna morale di un'azione bellica unanimemente approvata, anzi lodata; a cui, anzi, non deve neppure venire in mente la possibilità di questa condanna; e che perciò devono difendere in ogni caso l'irreprensibilità di un'azione che Lei sente, a ragione, come una colpa. Ecco perché i Suoi medici affermano: "Hiroshima in itself is not enough to explain your behaviour", ciò che in un linguaggio meno lambiccato significa: "Hiroshima è meno terribile di quanto sembra"; ecco perché si limitano a criticare, invece dell'azione stessa (o "dello stato del mondo" che l'ha resa possibile), la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una "malattia” ("classical guilt complex"); ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione come un "self‑imagined wrong", un delitto inventato da Lei. C'è da stupirsi che uomini costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitù morale a sostenere l'irreprensibilità della Sua azione, e a considerare quindi patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse così bugiarde ottengano dalle loro cure risultati così poco brillanti? Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta incredulità e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua azione. Hiroshima‑self-imagined!
Non c'è dubbio: Lei la sa più lunga di loro. Non è senza ragione che le grida dei feriti assordano i Suoi giorni, che le ombre dei morti affollano i Suoi sogni. Lei sa che l'accaduto è accaduto veramente, e, non è un'immaginazione. Lei non si lascia illudere da costoro. E nemmeno noi ci lasciamo illudere. Nemmeno noi sappiamo che farci di queste "consolazioni".
No, io dicevo per noi. Per noi il fatto che Lei non riesce a "venire a capo" dell'accaduto, è consolante. E questo perché ci mostra che Lei cerca di far fronte, a posteriori, all'effetto (che allora non poteva concepire) della Sua azione; e perché questo tentativo, anche se dovesse fallire, prova che Lei ha potuto tener viva la Sua coscienza, anche dopo essere stato inserito come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso con successo. E serbando viva la Sua coscienza ha mostrato che questo è possibile, e che dev'essere possibile anche per noi. E sapere questo (e noi lo sappiamo grazie a Lei) è, per noi, consolante.
"Anche se dovesse fallire", ho detto. Ma il Suo tentativo deve necessariamente fallire. E precisamente per questo.
Già quando si è fatto torto a una persona singola (e non parlo di uccidere), anche se l'azione si lascia abbracciare in tutti i suoi effetti, è tutt'altro che semplice "venirne a capo". Ma qui si tratta di ben altro. Lei ha la sventura di aver lasciato dietro di sé duecentomila morti. E come sarebbe possibile realizzare un dolore che abbracci 200 000 vite umane? Come sarebbe possibile pentirsi di 200 000 vittime?
Non solo Lei non lo può, non solo noi non lo possiamo: non è possibile per nessuno. Per quanti sforzi disperati si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati. L'inutilità dei Suoi sforzi non è quindi colpa Sua, Eatherly: ma è una conseguenza di ciò che ho definito prima come la novità decisiva della nostra situazione: del fatto, cioè, che siamo in grado di produrre più di quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono così enormi che non siamo più attrezzati per concepirli. Al di là, cioè, di ciò che possiamo dominare interiormente, e di cui possiamo "venire a capo". Non si faccia rimproveri per il fallimento del Suo tentativo di pentirsi. Ci mancherebbe altro! Il pentimento non può riuscire. Ma il fallimento stesso dei Suoi sforzi è la Sua esperienza e passione di ogni giorno; poiché al di fuori di questa esperienza non c'è nulla che possa sostituire il pentimento, e che possa impedirci di commettere di nuovo azioni cosi tremende. Che, di fronte a questo fallimento, la Sua reazione sia caotica e disordinata, è quindi perfettamente naturale. Anzi, oserei dire che è un segno della Sua salute morale. Poiché la Sua reazione attesta la vitalità della Sua coscienza.
Il metodo usuale per venire a capo di cose troppo grandi è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l'accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa. Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a capo. Come fa il Suo compagno e compatriota Joe Stiborik, ex radarista sull'Enola Gay, che Le presentano volentieri ad esempio perché continua a vivere magnificamente e ha dichiarato, con la miglior cera di questo mondo, che "è stata solo una bomba un po' più grossa delle altre". E questo metodo è esemplificato, meglio ancora, dal presidente che ha dato il "via" a Lei come Lei lo ha dato al pilota dell'apparecchio bombardiere; e che quindi, a ben vedere, si trova nella Sua stessa situazione, se non in una situazione ancora peggiore. Ma egli ha omesso di fare ciò che Lei ha fatto. Tant'è che alcuni anni fa, rovesciando ingenuamente ogni morale (non so se sia venuto a saperlo), ha dichiarato, in un'intervista destinata al pubblico, di non sentire i minimi "pangs of conscience", che sarebbe una prova lampante della sua innocenza; e quando poco fa, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, ha tirato le somme della sua vita, ha citato, come sola mancanza degna di rimorso, il fatto di essersi sposato dopo i trenta. Mi pare difficile che Lei possa invidiare questo "clean sheet”. Ma sono certo che non accetterebbe mai, da un criminale comune, come una prova d'innocenza, la dichiarazione di non provare il minimo rimorso. Non è un personaggio ridicolo, un uomo che fugge così davanti a se stesso? Lei non ha agito così, Eatherly; Lei non è un personaggio ridicolo. Lei fa, pur senza riuscirci, quanto è umanamente possibile: cerca di continuare a vivere come la stessa persona che ha compiuto l'azione. Ed è questo che ci consola. Anche se Lei, proprio perché è rimasto identico con la Sua azione, si è trasformato in seguito ad essa.
Capisce che alludo alle Sue violazioni di domicilio, falsi e non so quali altri reati che ha commesso. E al fatto che è o passa per demoralizzato e depresso. Non pensi che io sia un anarchico e favorevole ai falsi e alle rapine, o che dia scarso peso a queste cose. Ma nel Suo caso questi reati non sono affatto "comuni": sono gesti di disperazione. Poiché essere colpevole come Lei lo è ed essere esaltati, proprio per la propria colpa, come "eroi sorridenti", dev'essere una condizione intollerabile per un uomo onesto; per porre termine alla quale si può anche commettere qualche scorrettezza. Poiché l'enormità che pesava e pesa su di Lei non era capita, non poteva essere capita e non poteva essere fatta capire nel mondo a cui Lei appartiene, Lei doveva cercare di parlare ed agire nel linguaggio intelligibile costí, nel piccolo linguaggio della petty o della big larceny nei termini della società stessa. Così Lei ha cercato di provare la Sua colpa con atti che fossero riconosciuti come reati. Ma anche questo non Le è riuscito.
È sempre condannato a passare per malato, anziché per colpevole. E proprio per questo, perché ‑ per così dire ‑ non Le si concede la Sua colpa Lei è e rimane un uomo infelice.
E ora, per finire, un suggerimento.
L'anno scorso ho visitato Hiroshima; e ho parlato con quelli che sono rimasti vivi dopo il Suo passaggio. Si rassicuri: non c'è nessuno di quegli uomini che voglia perseguitare una vite nell'ingranaggio di una macchina militare (ciò che Lei era, quando, a ventisei anni, eseguì la Sua "missione"); non c'è nessuno che La odi.
Ma ora Lei ha mostrato che, anche dopo essere stato adoperato come una vite, è rimasto, a differenza degli altri, un uomo; o di esserlo ridiventato. Ed ecco la mia proposta, su cui Lei avrà modo di riflettere
Il prossimo 6 agosto la popolazione di Hiroshima celebrerà, come tutti gli anni, il giorno in cui "è avvenuto". A quegli uomini Lei potrebbe inviare un messaggio, che dovrebbe giungere per il giorno della celebrazione. Se Lei dicesse da uomo a quegli uomini: "Allora non sapevo quel che facevo; ma ora lo so. E so che una cosa simile non dovrà più accadere; e che nessuno può chiedere a un altro di compierla"; e: "La vostra lotta contro il ripetersi di un'azione simile è anche la mia lotta, e il vostro 'no more Hiroshima' è anche il mio 'no more Hiroshima', o qualcosa di simile può essere certo che con questo messaggio farebbe una gioia immensa ai sopravvissuti di Hiroshima e che sarebbe considerato da quegli uomini come un amico, come uno di loro. E che ciò accadrebbe a ragione, poiché anche Lei, Eatherly, è una vittima di Hiroshima. E ciò sarebbe forse anche per Lei, se non una consolazione, almeno una gioia.
Col sentimento che provo per ognuna di quelle vittime, La saluto.

Günther Anders
***

Risposta di Claude Eatherly
12 giugno 1959

Dear Sir,
molte grazie della Sua lettera, che ho ricevuto venerdì della scorsa settimana.
Dopo aver letto più volte la Sua lettera, ho deciso di scriverLe, e di entrare eventualmente in corrispondenza con Lei, per discutere di quelle cose che entrambi, credo, comprendiamo. Io ricevo molte lettere, ma alla maggior parte non posso nemmeno rispondere. Mentre di fronte alla Sua lettera mi sono sentito costretto a rispondere e a farLe conoscere il mio atteggiamento verso le cose del mondo attuale.
Durante tutto il corso della mia vita sono sempre stato vivamente interessato al problema del modo di agire e di comportarsi. Pur non essendo, spero, un fanatico in nessun senso, né dal punto di vista religioso né da quello politico, sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni. In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta. Ma oggi è relativamente chiaro che la nostra epoca non è di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, chiesa o stato). Nessuna di queste istituzioni è oggi in grado di impartire consigli morali infallibili, e perciò bisogna mettere in discussione la loro pretesa di impartirli. L'esperienza che ho fatto personalmente deve essere studiata da questo punto di vista, se il suo vero significato deve diventare comprensibile a tutti e dovunque, e non solo a me.
Se Lei ha impressione che questo concetto sia importante e più o meno conforme al Suo stesso pensiero, Le proporrei di cercare insieme di chiarire questo nesso di problemi, in un carteggio che potrebbe anche durare a lungo.
Ho l'impressione che Lei mi capisca come nessun altro, salvo forse il mio medico e amico.
Le mie azioni antisociali sono state catastrofiche per la mia vita privata, ma credo che, sforzandomi, riuscirò a mettere in luce i miei veri motivi, le mie convinzioni e la mia filosofia.
Gunther, mi fa piacere scriverLe. Forse potremo stabilire, col nostro carteggio, un'amicizia fondata sulla fiducia e sulla comprensione. Non abbia scrupoli a scrivere sui problemi di situazione e di condotta in cui ci troviamo di fronte. E allora Le esporrò le mie opinioni.
RingraziandoLa ancora della Sua lettera, resto il Suo

Claude Eatherly.


***

Nel 1963 Hannah Arendt, che per alcuni anni era stata la moglie di Anders (i due divorziarono), scrisse La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (XII ed. Feltrinelli, 2007), dove riportava il processo ad Adolf Eichmann avvenuto a Gerusalemme nel 1961. Eichmann si 'occupava' della deportazione degli ebrei ai campi di concentramento. La Arendt riporta le testimonianze, i fatti, le ricostruzioni di un eccidio la cui radice non è nella natura maligna, in un dio perfido ma nella più insignificante inconsapevolezza delle proprie azioni.
Durante le udienze Adolf Eichmann «Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge. [...] Oltre ad avere fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini - preoccupandosi sempre di essere "coperto" -, e perciò ora si smarrì completamente e finì con l'insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell'obbedienza cieca, ossia dell' "obbedienza cadaverica", Kadavergehorsam, come la chiamava lui.» (p. 142).
Al termine del processo in cui Heichmann fu condannato a morte «Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato - la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.» (p. 259).

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